«Alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia» e non su una solidarietà solo affermata con le parole. «Dio è nei rifugiati che tutti vogliono cacciare via. Il mio prossimo ha anche nazionalità e religioni diverse», evidenzia Francesco.
Se gli altri non ci interpellano, «non siamo buoni cristiani», avverte. «Chi è il mio prossimo? Chi devo amare come me stesso? I miei parenti? I miei amici? I miei connazionali? Quelli della mia stessa religione?», si chiede il Papa in una catechesi sulla parabola del buon samaritano che «nel suo racconto semplice e stimolante indica uno stile di vita, il cui baricentro non siamo noi stessi, ma gli altri, con le loro difficoltà».
E cioè «coloro che incontriamo sul nostro cammino e che ci interpellano». Infatti, sottolinea il Pontefice, «gli altri ci interpellano e quando non ci interpellano qualcosa non funziona, qualcosa non è cristiano». Quindi, aggiunge Jorge Mario Bergoglio, «non devo catalogare gli altri per decidere chi è mio prossimo e chi non lo è: dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di aiuto, anche se estranea o magari ostile».
Perciò occorre farsi prossimo «del fratello e della sorella che vediamo in difficoltà». Da qui l‘appello di Francesco a «fare opere buone, non solo dire parole che vanno al vento: mi viene in mente quella canzone “parole, parole”. E “mediante le opere buone che compiamo con amore e con gioia verso il prossimo, la nostra fede germoglia e porta frutto”. Ne scaturisce la domanda: “La nostra fede è feconda? Produce opere buone? Oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? Mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? Seleziono le persone a secondo del mio proprio piacere?”». Queste domande, precisa il Pontefice, «è bene farcele spesso perché alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia».